SENZA TEMPO

 

2019 - MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE NAPOLI

a cura del Servizio Educativo della Soprintendenza



 
 

Senza tempo, nel vivo del tempo.

di Eugenio Lucrezi

 

L’antico incessantemente ci parla, si dice. Ma il più delle volte è un modo di dire ed evoca una sorta di rassicurante rifugio, se l’oggi è una fuga a rotta di collo, in questi tempi nostri che vertiginosamente precipitano in direzioni molteplici e difficilmente governabili; mentre il  futuro, che non può che figliare dall’oggi, è più che incerto: è spaventoso come uno scrigno di incubi sul punto di schiudersi. E non somiglia affatto a quel domani di sorti magnifiche e progressive che ancora  poteva incantare quanti sono stati bambini solo alcuni decenni fa, come chi scrive e come Gianluigi Gargiulo, l’artista che qui ci propone la singolare sequenza intitolata Senza tempo: trentadue coppie di ritratti, ciascuna costituita dalla fotografia di un volto pescato tra i tanti della statuaria classica presente nella ineguagliabile collezione del MANN e da una singolare sorella, che risulta dall’elaborazione della prima immagine.

Gli antichi ci parlano, dunque. O perlomeno crediamo abbiano inteso porsi in relazione con la posterità, altrimenti non si sarebbero stancati nel lavorare materiali atti a sfidare i secoli, lasciandoci opere come quelle che abitano questo museo. Che noi visitatori costantemente interroghiamo perché abbiamo appreso che la consapevolezza di ciò che siamo, in quanto individui e in quanto consorzi umani, non può prescindere dal dialogo con la Storia e con le tante Tradizioni che la innervano. La buona volontà non è mancata agli antichi e non manca a noi. E tuttavia dialogare attraverso il tempo non è facile: lo specchio è illusorio, i messaggi che viaggiano su e giù per i secoli e i millenni sbiadiscono, si confondono così come le immagini ottiche distorte dai campi gravitazionali che arrivano ai telescopi orbitali dalle profondità spazio-temporali del cosmo. D’altra parte, è altamente probabile che noi non siamo esattamente i posteri che loro, gli antichi, s’immaginavano; e i volti delle antiche statue sono per lo più, al nostro sguardo, indecifrabili e misteriosi. Il dialogo tra i vivi e i morti attraverso il tempo è dunque un dialogo tra sordi?

Non per l’artista, che usa l’immaginazione. Non per Gianluigi Gargiulo, che non si è lasciato scoraggiare dalle difficoltà insite nell’ambizioso progetto di dare la parola a una serie di figure mute da tempo immemorabile, e insieme di attrezzarle di occhi ed orecchi adatti ai nostri giorni, fino a regalare loro la messe sorprendente dei più imprevedibili travestimenti, del più inatteso degli stupori.

Come nella “duina” n°04, intitolata Marco Aurelio giovane scopre il visore virtuale: la fotografia del futuro imperatore –vera star della mostra: ricorre in quattro coppie di opere– è accompagnata da un’immagine identica in cui però l’augusto fanciullo inforca, appunto, la nera mole degli occhialoni nella quale si aprono due oblò azzurri, bucati al centro da puntiformi, albicanti pupille; l’espressione che risulta è di eccitata meraviglia, perché gli oblò vengono percepiti dallo spettatore come fossero gli occhi spalancati del principe, intenti nella scoperta di un mirabolante futurama. Qui è la mera giustapposizione dell’artefatto a indurre e disegnare con esattezza l’espressione mimica del personaggio, inventando uno straniato racconto a venire; che si ripete con meccanismo analogo nel n°14, Marco Aurelio giovane scopre il Selfie; mentre nel n°00, Sofocle tipo scopre le cuffie audio, l’accigliato drammaturgo pare intento nell’ascolto del chiacchiericcio, per lui enigmatico e indecifrabile, di una qualche stazione radio a modulazione di frequenza. Il nostro artefice regala pertanto occhi ed orecchi contemporanei agli antichi. E tuttavia l’azzeramento della distanza temporale non apre, di per sé, gli spazi dialogici: semmai li complica, divaricandone i compassi come per effetto di un eccesso di segnali che non può che risultare nello sperdimento del senso. Che è poi il risultato che ci si attende da ogni operazione artistica, per la quale i segni e le figure finiscono regolarmente per eccedere il significato della rappresentazione. Ottenimento insieme comico e tragico, in nessun caso pacificato.

Senza tempo è pertanto denominazione ambigua: in realtà nessuna delle invenzioni figurali che qui ci scorrono sotto gli occhi –alcune esilaranti, altre orrorose; e inquietanti tutte– si risolve nella facile soluzione dell’accomodamento sincronico. La sequenza che Gianluigi Gargiulo si è inventata tocca in realtà il nodo cruciale che chiunque si avvicini all’antico si trova a dover affrontare, che è quello, cui si accennava più sopra, del mutismo del lascito. Le opere d’arte del passato sono state, al loro tempo, pulsanti di vita. Non si può far loro torto più grande che contemplarle, nel posteriore tempo che tocca a noi, odierni osservatori, di attraversare, quali immoti reperti delle stagioni che furono, cristallizzati una volta per sempre. L’antico ci chiede una sola cosa: di agitare le acque stagnanti delle stratificazioni temporali agitando il remo dell’esperienza; di muovere i sedimenti per riportarli a galla. Solo così l’opera torna a sentirsi viva, come è diritto di chi ha avuto la ventura di nascere in un’epoca oppure in un’altra, ma tutte le volte nel bel mezzo di una propria contemporaneità.

Ed ecco dunque un’antica Principessa Antonina alle prese con una surreale marina di René Magritte, subito dopo essersi trovata sul labbro i baffi irridenti della Gioconda di Duchamp; ecco uno Pseudo Seneca che si ritrova ringiovanito d’incanto, con la barba scura di Caravaggio al posto del candido vello, mentre  da presso un volto di Posidonio torce lo sguardo immoto per fissarci con gli occhi inquieti di Egon Schiele, e un vanitoso Ritratto di ignota, già sconcertato per essersi trovato la faccia scombussolata da Pablo Picasso, si fa bello indossando, su fondo d’oro, un ampio copricapo alla Gustav Klimt; ecco un’altra gran dama del tempo che fu che si gode il naso appena rifatto, mentre gli sciolti capelli della Venere di Botticelli la liberano, e non le pare vero, dalle austere acconciature cui è abituata e costretta. Ecco un Ritratto d’ignoto dall’espressione severa godersi, forse in segrete stanze, la molle acconciatura e la postura languida di Oscar Wilde, mentre da presso un giovane barbuto indossa curioso la gialla parrucca stopposa di Andy Warhol; ed ancora una matrona in età che prova il brivido dimenticato del sex-appeal indossando il sorriso maliardo di Marilyn Monroe, completo di mascara, ombretto e acconciatura d’ordinanza, subito emulata da un’Atena sciupata dai millenni, che si consola indossando uno strepitoso collier di Bulgari impreziosito –e qui il cortocircuito si fa vertiginoso!– da un sesterzio romano. A vincere il concorso di bellezza è però un cd Dioniso Farnese già fascinoso di suo, che si ritrova i labbroni sensuali, il naso all’insù e gli occhi assassini di Angelina Jolie. Abbiamo visto che ai bianchi marmi del MANN piace il cinema, anche nostrano, se al grande Pindaro, lirico corale, non dispiace assumere il ceffo cinico del Jep Gambardella de La grande bellezza; e non dispiacciono le serie televisive: almeno a Giulio Cesare, che, stanco di radersi come era d’uso ai suoi tempi, porta con disinvoltura non soltanto il barbone di Enzo di Gomorra, ma anche uno sguardo di ghiaccio che non può che essere uguale al suo, ai suoi tempi.

Qui ci si ferma, il testimone passa al visitatore di Senza tempo. Che si troverà alla fine, come chi scrive, ad avere effettuato un formidabile viaggio tra le pieghe della Storia e delle innumerevoli storie grandi e piccole che sono la stoffa del Tempo.